Il contributo analizza l’istituto della clausola penale, dal punto di vista della sua idoneità a valere quale strumento di rafforzamento dell’autonomia privata. Le parti possono inserire in contratto la clausola, per gestire la sopravvenienza legata all’inadempimento di una di esse; l’obiettivo è comprendere se, e in quale modo, sia possibile per esse derogare dall’applicazione della clausola, optando per il risarcimento dell’intero danno, derivante dall’inadempimento.
The papers focuses on the penalty clause from the perspective of its suitability as a tool to strengthen private autonomy. The parties can include the clause in the contract to manage the contingency related to one party's non-performance; the purpose is to understand whether, and in what way, it is possible for them to derogate from the application of the clause, opting for full damage compensation resulting from the non-performance.
Sommario:
1. Considerazioni introduttive. - 2. Considerazioni sulla funzione della clausola penale. - 3. I rapporti tra clausola penale e risarcimento del danno. - 4. I rapporti tra la clausola penale e il contratto cui accede. - 5. Mancata attivazione della penale, e risarcimento integrale del danno. - 6. Considerazioni conclusive. - 7. NOTE
Le ragioni che inducono a una nuova riflessione intorno alla clausola penale, pur fondate sul grande dibattito, che dottrina e giurisprudenza ha intrattenuto sul tema[1], si devono a una lettura dell’istituto attraverso il filtro dell’autonomia privata. Se la penale è uno strumento a disposizione, anzitutto, dei contraenti, (ma, altresì, del testatore), e, quindi, della loro libertà contrattuale, mi propongo di comprendere se, ed eventualmente in che modo, tale libertà possa, partendo dalla previsione negoziale della clausola, esprimersi in modo ancòra più significativo, riconoscendo ai contraenti il potere di disporne, anche una volta inserita in contratto, e verificatisi i presupposti per la sua attivazione. Sùbito si rende necessaria una considerazione di principio, che rappresenta la linea direttrice dell’argomentazione successiva: i paciscenti, pur nei limiti dettati dalle norme inderogabili, hanno il potere – e diversamente non potrebbe, né dovrebbe, essere – di adeguare gli strumenti negoziali secondo le proprie esigenze [2]. Se è vero che, a mente dell’art. 1372 cod. civ., il contratto ha forza di legge tra le sue parti, è altrettanto vero che tale legge deriva dalle parti stesse, che ad essa saranno soggette. Ciò, fermi restando – e la precisazione è ovvia – i limiti derivanti dai principî fondamentali e dalle norme cogenti. In via generale, si può osservare che siffatta massimizzazione della volontà dei privati, anche talvolta al di là di limiti un tempo ritenuti invalicabili, è una tendenza già in atto nel sistema privatistico. La considerazione non è solo, o non tanto, riferita allo spazio lasciato, dalle norme codicistiche, alla scelta da parte dei privati in ordine alla particolare conformazione da attribuire a un dato contratto o istituto [3]. Quello, cui si fa qui riferimento, è un quid più profondo, che coinvolge in modo più incisivo il potere dei privati. È una dimensione in cui l’autonomia negoziale arriva a definire i rapporti tra le parti, per poi ridefinirli, anche prescindendo da, e smentendo, sé stessa [4]. Ecco che i termini della riflessione si arricchiscono di due nuovi fattori, che rappresentano declinazioni di principî fondamentali, arrivando così a [continua ..]
Il corso fisiologico della vita di un contratto consiste, com’è ovvio, nello schema adempimento–esaurimento del rapporto. Tuttavia, tale schema è facilmente suscettibile di essere infranto, in ragione – per quello che qui rileva – dell’inadempimento del debitore. Ciò comporta l’attivazione di rimedî diversi, a seconda delle cause e della natura dell’inadempimento. Infatti, come ogni fatto della vita – e non vi sfugge la vita giuridica –, la rottura del patto comporta la reazione di chi a quel patto era soggetto, e che, come nel caso del contratto, aveva contribuito a creare. Ordinariamente, la reazione all’inadempimento coincide con la risoluzione del contratto, cui può accompagnarsi la richiesta risarcitoria della parte non inadempiente. A tal proposito, si pongono due ordini di problemi. In primo luogo, vi è quello di stabilire se l’inadempimento, per come concretamente verificatosi, integri i presupposti per determinare la risoluzione del contratto, ai sensi degli articoli 1452 e seguenti cod. civ. Parallelamente, ed è l’aspetto che qui interessa maggiormente, si registrano difficoltà interpretative, allorché si tratti di valutare i termini del risarcimento, in ordine alla valutazione dell’attribuibilità dell’inadempimento al suo autore, e alle ricadute patrimoniali nei confronti della controparte, da cui deriva la determinazione del suo credito risarcitorio. Ciò è fonte di diversi nodi interpretativi, ancor prima che pratici, in ordine alla prova delle ricorrenze tutte – afferenti all’an – del risarcimento, e all’effettivo suo ammontare, vale a dire al quantum. Interesse delle parti è evitare, o, quanto meno, ridurre al minimo, tali incognite, sì da rendere più gestibili le conseguenze dell’inadempimento. Si apre, da questo punto di vista, l’annosa discussione circa la natura e la funzione della clausola penale. La dottrina è divisa; merita richiamare soltanto i punti essenziali delle varie proposte dommatiche, qui particolarmente rilevanti. Una prima lettura, già affermata nella dottrina più risalente, vede nella clausola penale una declinazione di «patti che hanno funzioni o scópi diversi, benché tutti si possano assommare nel concetto di patto sanzionatorio [continua ..]
Intendo fermare l’attenzione su un aspetto ben preciso dell’istituto della clausola penale, vale a dire quello relativo ai rapporti con il risarcimento del danno, a fronte dell’inadempimento del soggetto obbligato. Per poter procedere a tale disamina, conviene prendere a riferimento, tra le funzioni ritenute proprie della clausola penale, quella che vi ravvede un atto di liquidazione preventiva e forfetaria del danno, coincidente con la misura concreta del risarcimento [14]. Da questa prospettiva, la penale non riguarderebbe l’an del danno, con la conseguenza che il convenuto dovrebbe poterne provare l’inesistenza, oppure, all’opposto, l’attore provarne l’esistenza; parallelamente, il quantum della lesione rimarrebbe coincidente con il forfait predefinito dalla clausola [15]. Ne deriva, secondo una lettura ampiamente affermata in dottrina, la non ammissibilità della prova del danno, e la connessa non rilevanza del danno in sé [16]. Si è osservato, tuttavia, e correttamente, l’impossibilità di ammettere la presunzione della sussistenza del danno, in quanto si tratterebbe di un artificio costruttivo. Il danno risarcibile non potrebbe considerarsi ricorrente ex se, per il solo fatto dell’inadempimento. La conseguenza, che se ne trae, è quella per cui, se la concreta ed effettiva esistenza del pregiudizio fosse irrilevante per l’operatività della clausola, allora questa non potrebbe svolgere la propria funzione di liquidazione preventiva e forfetaria del danno [17]. Anche gli interpreti, che attribuiscono alla clausola penale la funzione di definizione preventiva e convenzionale del danno, ammettono la non definitività di codesta liquidazione, in quanto la funzione dell’istituto consisterebbe, in modo precipuo, nella semplificazione probatoria ex art. 1382, secondo comma, cod. civ. [18]. Si invertirebbe, in questo caso, l’onere della prova, con la conseguenza che la clausola penale diverrebbe un patto tipico sull’onere probatorio, e, pertanto, un regolamento della prova stessa [19]. Va rilevato, tuttavia, come siffatta ricostruzione sia stata oggetto di critiche, in quanto si è ritenuto che ci si troverebbe ad ammettere che la penale possa essere ridotta, qualora il debitore provi che il danno sia inferiore, rispetto a quello da essa [continua ..]
Anzi s’è osservato che, verificatosi l’inadempimento del debitore, rispetto all’obbligazione dedotta in contratto, si attivi l’obbligazione definita dalla penale, e che il debitore vi sia effettivamente soggetto soltanto quando il creditore ne faccia richiesta[29], pur non valendo quest’ultima quale elemento costitutivo della penale, né quale condizione di efficacia, ma semplicemente quale circostanza che determina l’attualità dell’adempimento della clausola [30]. Vista la possibilità, per le parti di un contratto, di gestire la sopravvenienza, rappresentata dall’inadempimento del soggetto tenuto all’esecuzione della prestazione, mediante la pattuizione di una clausola penale, e visti gli ampî margini di adattamento della stessa ai desiderata dei paciscenti, occorre ora comprendere se e come tale gestione possa estendersi sino alla scelta di non attivare la penale, pur prevista, e di preferire forme diverse di reazione all’inadempimento. A mio avviso, la risposta al quesito va ricercata nella natura del patto di penale, se sia da qualificarsi, oppure no, quale negozio ontologicamente autonomo, rispetto al contratto cui accede. La risposta a tale domanda consentirà di valutare se la clausola, in ragione della sua eventuale autonomia, possa azionarsi oppure no, a seconda della volontà delle parti. Va da sé che, qualora dovesse ravvisarsi l’essenziale ancillarità della clausola, l’autonomia dei contraenti, circa un’eventuale non attivazione della medesima, si troverebbe ad essere assai ridimensionata, dovendo la clausola muoversi di pari passo con il contratto, risultando da questo necessitata. Anche sul punto si registrano differenti interpretazioni. Chi ha negato il carattere autonomo della clausola penale, fa riferimento al dato testuale, per cui l’art. 1383 cod. civ. rinvia alla «prestazione principale», e l’art. 1384 cod. civ. all’«obbligazione principale», inferendone che le vicende dell’obbligazione dedotta in contratto abbiano riflessi su quella accessoria, portata dalla clausola penale [31]. Altra dottrina afferma che quest’ultima presupponga necessariamente un contratto, in quanto non potrebbe configurarsi un negozio che abbia, quale esclusiva funzione, quella di arricchire con una penale un’obbligazione [continua ..]
A questo punto, si rivela chiara la platea di presupposti e di riferimenti, decisivi per sciogliere la questione principale in esame. Se il creditore possa, oppure no, abdicare all’attivazione della clausola, e dirigere le sue richieste al danno complessivamente ritenutopatìto, è aspetto che non può prescindere, infatti, dalla declinazione attribuita all’istituto, nei suoi caratteri generali, e dalla posizione di ontologica autonomia, con cui si pone nei confronti del contratto cui accede. Com’è occorso per ogni altro tema, afferente alla clausola penale, anche con riferimento a quello in parola si deve registrare, tra gli interpreti, una difformità di vedute. Una parte della dottrina ha affermato che il creditore possa domandare il risarcimento del danno in luogo della penale, soltanto qualora sia stata precedentemente prevista la risarcibilità del danno ulteriore [39]. Altra lettura, invece, esclude recisamente siffatta possibilità, a prescindere dalla previsione della risarcibilità del danno eccedente; in questo senso, per effetto della sola previsione della penale in contratto, sarebbe da escludersi la possibilità di ottenere il ristoro dell’intero danno, e ciò al fine di evitare che la clausola divenga strumento di indebita sopraffazione del debitore [40]. La previsione del risarcimento del danno ulteriore eliminerebbe lo svantaggio per il creditore, per il caso in cui il danno effettivo sia maggiore, rispetto all’importo dedotto in penale; tale patto, tuttavia, non inciderebbe né sulla funzione, né sull’efficacia, della clausola [41]. Di qui, la possibilità di ammettere il cumulo tra penale e risarcimento, unicamente per la parte eccedente la prima, con l’applicazione, per tale porzione, della generale disciplina del risarcimento del danno [42]. Si deve registrare, tuttavia, un altro filone interpretativo che si dimostra più sensibile al potere di movimento dell’autonomia privata. Si è osservato che, poiché la clausola penale è definita a vantaggio del creditore, e non può conseguentemente risolversi in suo danno, qualora l’importo da essa portato si riveli inadeguato alla lesione patita, allora, a integrazione della clausola, sarebbe applicabile l’art. 1385, terzo comma, cod. civ., dettato in materia di caparra confirmatoria, che [continua ..]
La ricostruzione ora proposta, suffragata da recente giurisprudenza, può rappresentare chiaro esempio del potere di intervento e gestione delle sopravvenienze contrattuali, e degli istituti fatti confluire in contratto, da parte dell’autonomia privata[50]. Prima conferma, e fondamentale presupposto, è la necessità che entrambe le parti siano in accordo nel perseguimento di questa strada, anche attraverso la determinazione in negativis della mancata invocazione della clausola penale, sia in via principale da parte del creditore non inadempiente, sia in via di eccezione, ad opera del debitore, resosi inadempiente. Qualora, infatti, uno dei due contraenti manifestasse l’intenzione di accedere alla clausola contrattuale, sarebbe indefettibilmente questa a tenere regime nella gestione delle vicende legate all’inadempimento, e nella tutela dell’avente diritto. La domanda circa l’interesse, che le parti avrebbero nel perseguire una strada differente, rispetto a quella pattiziamente già definita, dà agio, quanto meno in linea teorica, a una facile risposta. Il creditore sarebbe mosso dall’intento di ottenere un risarcimento per un importo maggiore, rispetto a quello fissato come tetto dalla clausola penale. Qualora, infatti, il pregiudizio, che egli ritenga di aver subìto dall’inadempimento altrui, superi il quantum portato dalla penale, e definito come limite insuperabile per il ristoro dovutogli, è pienamente giustificata e comprensibile la scelta di ovviare a tale tetto, e di mirare al maggiore ristoro, potenzialmente derivante dall’applicazione dei generali strumenti di rimedio. Speculare, invece, è l’interesse che potrebbe frenare il debitore dall’eccepire l’attivazione della previsione contrattuale, e accettare di uscire dai relativi binarî già tracciati. Come osservato, scegliendo il ricorso al regime ordinario del risarcimento, il creditore deve soddisfare l’onere probatorio, relativo alla sussistenza e all’ammontare del danno. Ebbene, qualora la parte inadempiente, e richiesta del ristoro, ritenesse deboli le prove a disposizione del creditore, e, quindi, fosse convita che tale onere non verrà soddisfatto, ben potrebbe essere incentivata ad accettare la disapplicazione della clausola, per poter confutare la richiesta altrui, secondo i consueti canoni probatorî. A [continua ..]