Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Frazionamento del credito risarcitorio da sinistro stradale. L'improponibile sanzione dell'improponibilità della domanda (di Massimo Gazzara, Professore Ordinario di Diritto privato – Università degli Studi di Foggia)


La sentenza in commento ribadisce, secondo un orientamento consolidato, il principio secondo cui non è ammesso, risolvendosi in un abuso dello strumento processuale, la proposizione di due distinti giudizi risarcitori per danni derivanti dal medesimo fatto illecito. La nota analizza criticamente il rimedio adottato della improponibilità della domanda proposta successivamente, suggerendo che la soluzione più corretta debba essere limitata ad un corretto governo delle spese processuali del secondo giudizio.

Fractionation of the traffic accident compensation claim. The inadmissible sanction of inadmissibility of the court claim

The judgment under comment reaffirms, in accordance with a well-established orientation, the principle that it is not permissible, resolving itself into an abuse of the procedural instrument, to bring two separate compensation judgments for damages arising from the same tort. The note critically analyzes the adopted remedy of the inadmissibility of the subsequently proposed claim, suggesting that the most correct solution should be limited to a proper governance of the court costs of the second judgment.

Al soggetto danneggiato non è consentito, in presenza del danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento. Tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, infatti, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale.

Cass. civ., III sez., ord. 25 gennaio 2023, n. 2278

SOMMARIO:

1. La vicenda processuale - 2. Un breve excursus giurisprudenziale - 3. Il problema dell’individuazione di un interesse apprezzabile al frazionamento - 4. La sanzione della improponibilità/inammissibilità della domanda frazionata - 5. Il paradossale effetto di consumazione del diritto di credito azionato, conseguente alla dichiarazione di improponibilità - 6. La soluzione più corretta passa attraverso un uso equilibrato della pronunzia sulle spese processuali - 7. Considerazioni conclusive - NOTE


1. La vicenda processuale

La sentenza in commento affronta una questione certamente non nuova in tema di frazionamento abusivo del credito risarcitorio derivante da sinistro stradale. L’ipotesi classica è quella di un soggetto che abbia riportato nel medesimo incidente un danno a cose e un danno alla persona e opti per instaurare due distinti giudizi finalizzati a ottenere il ristoro delle due diverse voci di danno di cui si assume vittima. Nel caso di specie, l’attore, caduto dal ciclomotore a causa del manto stradale imperfetto, promuoveva una prima azione per il risarcimento del danno patito dal motociclo di sua proprietà innanzi al Giudice di Pace, che accoglieva la domanda con sentenza poi passata in giudicato. Assumendo di aver fatto espressa riserva, nel primo giudizio, di una successiva azione per il ristoro delle lesioni patite, conveniva successivamente il responsabile civile innanzi al Tribunale per il risarcimento dei danni alla persona, ma la domanda, in ossequio a un orientamento consolidato [1], veniva dichiarata improponibile, con decisione poi confermata dalla Corte di Appello, e dalla Cassazione. Fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. Nel motivare la decisione, la S.C. si sofferma sui criteri da cui desumere l’abusività o meno della condotta processuale dell’attore/danneggiato, ovvero sulla legittimità della sua scelta di frazionare il proprio credito risarcitorio – composto di differenti voci, ma traente origine da un medesimo fatto dannoso – in due distinti giudizi, omogenei per causa petendi ma differenti nel petitum. Ma il punctum dolens, sul quale si intende principalmente concentrare l’indagine critica, non è tanto quello dell’accertamento della condotta abusiva, su cui pure andrà spesa qualche considerazione, quanto quello delle conseguenze che dalla accertata violazione si pretenderebbe di far discendere e cioè la dichiarazione di improponibilità della seconda domanda, sanzione di straordinaria gravità, e, senza voler anticipare le conclusioni di queste brevi note, priva di ogni adeguata motivazione.


2. Un breve excursus giurisprudenziale

Prima di addentrarci in quello che sembra a chi scrive il profilo meritevole di censura, spesso inspiegabilmente negletto o trascurato nella speculazione dottrinaria in argomento, pare opportuno ripercorrere, seppur a larghe linee, la storia del fenomeno nella giurisprudenza di inizio secolo, concentrandosi espressamente sul frazionamento dei crediti risarcitori, con l’ovvia avvertenza che si tratta di un sottoinsieme, seppur statisticamente significativo, di un ventaglio di ipotesi molto più ampio e che spazia, per limitarci alla sola concreta casistica, dal frazionamento del credito pecuniario derivante da un unico rapporto contrattuale, alla tutela frazionata dei crediti da lavoro [2] e alla parcellizzazione delle azioni esecutive [3]. Una pietra miliare di tale parabola giurisprudenziale viene comunemente identificata in una notissima pronunzia delle Sezioni Unite [4] che fissò il principio in virtù del quale «è da ritenersi contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario», pronunzia da cui trasse origine un ampio filone adesivo, non scevro di eccessi anche agli occhi di chi accolga con favore le linee ispiratrici del revirement giurisprudenziale. Si è così ritenuto, in tema di equa riparazione ex l. n. 89/2001, integrare abuso del processo la condotta di più soggetti che, dopo aver agito unitariamente nel procedimento caratterizzato da eccessiva durata, abbiano poi proposto alla Corte di Appello distinte domande di indennizzo, con identico patrocinio legale [5]. Si è altresì giunti a sostenere che costituisca frazionamento abusivo del credito persino la proposizione di distinte azioni (nel caso di specie impugnative) da parte di una pluralità di soggetti diversi ove unico sia il soggetto responsabile e plurimi siano solo i danneggiati, i quali dopo aver assunto la stessa condotta in fase di richiesta dell’indennizzo, agendo con lo stesso difensore, abbiano poi instaurato singolarmente procedimenti diversi [6]. Alcune di queste estremizzazioni interpretative indussero le Sezioni Unite a intervenire nuovamente a distanza di dieci anni dal precedente dictum [7], al fine di [continua ..]


3. Il problema dell’individuazione di un interesse apprezzabile al frazionamento

Ora, nel caso in esame, ed in numerosi altri casi analoghi, si rientra perfettamente in tale ambito oggettivo, ricorrendo l’identità del fatto costitutivo delle pretese, rappresentato dal sinistro stradale, produttivo di diverse tipologie di danni e dunque fonte di un credito risarcitorio composto di più e differenti voci. La questione, oggetto di disputa, riguarda dunque la ricorrenza o meno di un interesse apprezzabile del danneggiato ad attivare diversi giudizi in ragione del diverso pregiudizio subito, eventualmente, come nel caso di specie, davanti a differenti autorità giudiziarie e in momenti successivi, sì da rendere impossibile anche il ricorso ad una serie di rimedi processuali, quali ad esempio la riunione dei giudizi, pur comunemente prospettati come “antidoti” alla stortura, in termini di proliferazione dei processi, rappresentata dal frazionamento del credito. Di qui una querelle, dibattuta in I e II grado, circa l’avvenuta stabilizzazione dei postumi invalidanti conseguenti alla caduta al momento della notifica della prima citazione, e dunque sulla strumentalità o meno del­l’attivazione di una doppia tutela giudiziaria, posto che, a parere di entrambi i giudicati di merito, esistevano nel caso di specie già in quel momento i presupposti per una valutazione del danno biologico patito dall’at­tore, sì da rendere ingiustificato e dunque abusivo il ricorso ad una tutela differenziata. Querelle che, tuttavia, attiene essenzialmente al fatto e comunque relativamente appassionante. La sussistenza o meno di un interesse meritevole alla tutela frazionata è una questione che non può che appurarsi di volta per volta in riferimento al caso concreto [9], con una valutazione che sconta parametri di riferimento di non immediata fruibilità, come sempre accade quando ci si richiama, piuttosto che a regole disciplinanti una specifica fattispecie, a principi generali quali quelli, più volte evocati, di correttezza e buona fede, per non dire di quelli, di rango costituzionale, di solidarietà sociale [10] e di giusto processo [11]. Per tornare alla vicenda in esame, anche a voler dare per acquisito che l’attore disponesse all’atto della proposizione del primo giudizio degli elementi idonei a condensare in un unico processo tutte le richieste risarcitorie, e anche a voler considerare (ma questo il [continua ..]


4. La sanzione della improponibilità/inammissibilità della domanda frazionata

Nella gran maggioranza delle sentenze, la conseguenza della tutela frazionata è appunto l’impropo­nibilità della domanda, anche se in un numero minore di pronunce si fa riferimento alla nozione, contigua per non dire sostanzialmente sovrapponibile, di inammissibilità. I due termini sembrano essere usati come sinonimi, mentre sufficientemente delineata è la distinzione con la categoria dell’improcedibilità [13]. Ora, è proprio la conseguenza pratica di tale asserita improponibilità, che in talune pronunce sembra essere riferita a tutte le domande frazionate [14] ed in altre solo a quelle successive alla prima [15], che merita di essere indagata. In alcune situazioni, si pensi a quelle di un credito di fonte contrattuale attivato frazionatamente con diverse iniziative giudiziarie, la dichiarazione di inammissibilità non produce conseguenze irreparabili per il creditore. Se si guarda alla concreta fattispecie, posto che è buona norma tenere sempre a mente che ogni pronunzia, anche di legittimità, è pur sempre la decisione di un caso concreto dal quale non può prescindersi nell’analisi del provvedimento, si scopre, ad esempio che alcune importanti pronunce nascevano appunto da situazioni di fatto in cui “imporre” al creditore una tutela unitaria del credito non comportava alcun concreto pregiudizio alle sue ragioni. A meno, infatti, di non voler attribuire alla declaratoria di improponibilità natura sostanziale [16], opzione interpretativa che mi pare recisamente da escludersi e che condurrebbe a conseguenze ancora più aberranti, a questi sarà sufficiente riproporre nell’ambito di un’azione unica tutte le pretese “parcellizzate”, senza alcun nocumento alla sostanza del credito. L’inammisibilità/improponibilità, espressamente prevista in alcune normative, costituisce la conseguenza del mancato assolvimento di un onere; è ad esempio improponibile, ai sensi dell’art.145 cod. ass., la domanda di risarcimento del danno da sinistro stradale introdotta prima che siano trascorsi 60 (in caso di sinistri con soli danne a cose) o 90 giorni (in caso di sinistri produttivi di lesioni) dal ricevimento da parte della Compagnia assicurativa della richiesta risarcitoria del danneggiato [17]. Per restare in tema di sinistri stradali, è [continua ..]


5. Il paradossale effetto di consumazione del diritto di credito azionato, conseguente alla dichiarazione di improponibilità

Al contrario, nel caso della pronunzia in commento, la dichiarazione di improponibilità della domanda successiva finisce con l’avere un effetto preclusivo all’esercizio del diritto (nel caso di specie al risarcimento del danno alla persona) che potremmo definire sostanzialmente estintivo, persino più grave di quello determinato dalla prescrizione. Se, infatti, è prospettabile una certa comunanza col fenomeno prescrizione nel senso che, più che un effetto autenticamente estintivo del diritto, viene a determinarsi, anche nel caso di abusivo frazionamento del credito, l’impossibilità di un suo esercizio in sede giudiziale, è pur vero che la prescrizione opera esclusivamente sulla base di un’eccezione di parte, mentre pacificamente l’inammissibilità della domanda per frazionamento del credito può essere rilevata d’ufficio dal Giudice. Tuttavia, la sottrazione irreparabile e definitiva della possibilità di fatto di far valere il proprio diritto (equivalente, sul piano degli effetti in concreto, alla sua perdita) per il presunto abuso fattone sul piano delle modalità di esercizio giudiziale appare ingiustificata [21], contraria ai principi basilari del nostro sistema [22], e del tutto spropositata alle finalità di tutela del debitore avverso aggravi della sua esposizione e persino delle ragioni di economia processuale che fonderebbero, secondo ampi settori della giurisprudenza e della dottrina [23], le ragioni giustificative della sanzione [24]. Tenendo sempre comunque presente che la posizione del debitore è pur sempre quella di un soggetto che con la sua inadempienza ha dato origine alla necessità di ricorrere all’azione giudiziaria [25] e che le finalità deflattive del contenzioso – divenute negli ultimi anni un parossistico leitmotiv del legislatore, determinato a scoraggiare in ogni modo l’accesso alla Giustizia – possono ben essere perseguite e realizzate senza ricorrere a soluzioni estreme, di pura creazione giurisprudenziale, e prive di ogni fondamento normativo. Soluzioni che, tra l’altro, realizzano il paradossale effetto premiale di liberazione del debitore inadempiente, conseguenza oggettivamente irragionevole.


6. La soluzione più corretta passa attraverso un uso equilibrato della pronunzia sulle spese processuali

La proposta più equilibrata, caldeggiata da gran parte della dottrina e adottata in diversi arresti giurisprudenziali[26], è invece quella di limitare le conseguenze sanzionatorie dell’abuso dello strumento processuale sul piano del governo delle spese di lite. L’art. 92 c.p.c. prevede espressamente che il Giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue. Verrebbe, così, ad un tempo, riconosciuto il diritto azionato e sanzionata la modalità di esercizio processuale dello stesso, e altresì vanificata la finalità di lucrare indebitamente le spese processuali e insieme di aggravare la posizione del debitore. Anche il sovraccarico arrecato alla macchina giudiziaria riceverebbe una sanzione indiretta, rappresentata dal mantenimento, a carico del proponente l’azione frazionata, delle spese del contributo unificato e di registrazione della sentenza. Conseguenze da ritenersi, se costantemente applicate in sede giurisprudenziale, sufficienti a scoraggiare il frazionamento abusivo del credito, specie quando essa sia ordito con la complicità (o su suggerimento) del patrono che vedrebbe frustrato l’obbiettivo di accrescere in misura esponenziale le proprie spettanze, a danno della controparte [27]. Poco convincente è invece la proposta di far ricorso all’art. 96 c.p.c. [28]. Un’interpretazione estensiva della disposizione urta infatti contro il dato letterale, rappresentato dall’uso della parola soccombente, posizione che certamente non assume colui il quale agisca, seppur ripartendo in maniera non corretta le domande, per il riconoscimento di un diritto che dovesse poi appurarsi essere realmente esistente (come, appunto, indiscutibilmente esistente si configura, nel caso da cui ha tratto origine la sentenza in commento, il diritto del centauro al ristoro delle lesioni personali subite). Neppure mi pare praticabile la soluzione, suggerita da qualche autore [29], di applicazione dell’art. 88 c.p.c. [30], il quale, in combinato disposto con l’art. 92 c.p.c., sanziona la violazione dei doveri di lealtà e probità prevedendo che, indipendentemente dalla soccombenza, il Giudice possa condannare la parte responsabile della violazione al rimborso delle spese causate all’altra parte. Doveri, è bene intendersi, che secondo la prospettata [continua ..]


7. Considerazioni conclusive

In conclusione, nonostante da inizio secolo si siano susseguite in argomento tre pronunzie della S.C. a Sezioni Unite, il panorama giurisprudenziale risulta ancora frastagliato e contraddittorio, con greve nocumento per la certezza del diritto e, a leggere la pronunzia in oggetto, anche dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. I quali impongono di limitare le conseguenze negative per il creditore che attivi la tutela frazionata del proprio diritto al piano del governo delle spese processuali, nell’ambito del quale diverse soluzioni sono prospettabili, pur caldeggiandosi da parte di chi scrive come la più opportuna ed equilibrata quella che si limita alla compensazione delle spese e alla definitiva ed esclusiva posta in carico all’attore di quelle relative al contributo unificato e alla registrazione della sentenza, ovvero, come in alcune pronunzie è stato fatto, in caso di frazionamento cd. contestuale, a quantificare le spese a favore della parte vittoriosa come se la domanda fosse stata proposta unitariamente, anziché in plurimi procedimenti. Appare, invece, decisamente da scartare ogni soluzione che, come quella adottata nella pronunzia in commento, generi l’effetto estintivo del diritto per effetto del suo abusivo esercizio in sede processuale [35]. L’approdo appare veramente troppo ardito. Per via meramente interpretativa, in assenza di una figura legalmente tipizzata, si configura l’abuso, e con un ulteriore salto logico ed interpretativo se ne deduce una sanzione, anch’essa frutto di pura invenzione giurisprudenziale, che incide, menomandolo irrimediabilmente, su un diritto soggettivo patrimoniale. Ma così ragionando (o lavorando di fantasia), per dirla con un riconosciuto Maestro della dottrina processualistica [36], «l’interprete (anzi il giudice) può giungere pressoché dove vuole, avendo cura di ammantarsi di una cospirante volontà repressiva e censoria del legislatore arruolato a debellare gli abusi». Un classico caso di rimedio peggiore del male, anche per gli esiti pratici che ne scaturisono, produttivi, per una singolare eterogenesi dei fini, di una moltiplicazione del contenzioso che si intenderebbe scongiurare.


NOTE