Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Sviluppo sostenibile, greenwashing e tutela del consumatore (di Monica Pucci, Assegnista di ricerca in Diritto privato –Università degli Studi di Perugia)


La sostenibilità ambientale è diventata una vera e propria sfida per le moderne realtà imprenditoriali che, facendo leva sulla sempre più diffusa sensibilità ecologica dei consumatori, puntano sulla tutela ambientale quale strategia di mercato per prevalere sui propri competitors. Partendo da tale presupposto, il presente contributo analizza il fenomeno dell'uso distorto della sostenibilità a fini promozionali, c.d. greenwashing, soffermando in particolare l'attenzione sull’idoneità dell'enforcement delle regole volte a presidiare il diritto dei consumatori ad un’informazione chiara, veritiera e trasparente, a beneficio di scelte di consumo che siano effettivamente consapevoli.

Sustainable development, greenwashing and consumer protection

Environmental sustainability has become a real challenge for modern businesses that, leveraging on the increasingly widespread ecological awareness of consumers, focus on environmental protection as a market strategy to prevail over their competitors. Starting from this assumption, this contribution analyses the phenomenon of the distorted use of sustainability for promotional purposes, so called greenwashing, focusing in particular on the suitability of the enforcement of rules aimed at protecting consumers'right to clear, truthful and transparent information, for the benefit of consumer choices that are actually conscious.

SOMMARIO:

1. L’integrazione della sostenibilità ambientale nelle strategie imprenditoriali - 2. L’uso distorto della sostenibilità ambientale a fini promozionali: il fenomeno del greenwashing - 3. Segue. L’enforcement delle regole a tutela del consumatore: le linee guida dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria - 4. Segue. Gli orientamenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - 5. Considerazioni conclusive - NOTE


1. L’integrazione della sostenibilità ambientale nelle strategie imprenditoriali

Il tema della «sostenibilità» ambientale e la questione dello «sviluppo sostenibile» [1] acquistano sempre maggiore rilevanza nella nostra quotidianità, ponendosi al centro del dibattito contemporaneo [2]: la diffusa sensibilizzazione circa l’emergenza delle problematiche ambientali ha reso il perseguimento di uno sviluppo sostenibile nell’attività d’impresa una delle sfide più accattivanti per tutti i soggetti economici che operano nel mercato [3] e, al tempo stesso, un limite intrinseco all’esercizio di tale attività. Una conferma in tal senso si desume dall’approvazione, nel febbraio dello scorso anno, della legge di riforma costituzionale n. 1 del 2022 [4] attraverso la quale la protezione dell’ambiente è stata espressamente inclusa tra i princípi fondamentali della nostra carta costituzionale. Al previgente art. 9 cost. è stato, infatti, aggiunto un terzo comma ai sensi del quale la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni (…)»; nonché al comma 2 dell’art. 41 è stato disposto che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi «in modo da recare danno all’ambiente» per poi rinviare al legislatore (art. 41, comma 3, cost.) il compito di determinare programmi e controlli perché le attività economiche pubbliche e private possano essere indirizzate e coordinate a fini sociali ed ambientali. In tal modo, la legge costituzionale ha inteso, da un lato, riconoscere all’ambiente il carattere di bene costituzionalmente garantito e protetto [5]; dall’altro, riformarne il rapporto con la proprietà privata e la libertà di impresa [6], con conseguente legittimità di eventuali interventi normativi che, in attuazione del principio di solidarietà [7], impongano alle imprese di conformare i propri processi produttivi alla protezione dell’ambiente. La prima celebre definizione di sviluppo sostenibile risale alla fine degli anni ‘80, quando nella stesura del Rapporto «Our common future» da parte della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo [8], lo stesso venne identificato con l’esigenza di soddisfare i bisogni del presente [9] senza compromettere la [continua ..]


2. L’uso distorto della sostenibilità ambientale a fini promozionali: il fenomeno del greenwashing

Dietro il green marketing e la green communication, tuttavia, si celano le principali insidie per i consumatori: non sempre, infatti, le aziende che pubblicizzano i propri prodotti come eco friendly implementano politiche imprenditoriali realmente compatibili con la declamata sostenibilità [26]. L’uso strumentale (rectius, l’abuso) delle asserzioni ambientali espone il professionista a ripercussioni tanto sul piano giuridico quanto economico, integrando – come si vedrà nel prosieguo [27] – una pratica commerciale scorretta [28] meglio nota come greenwashing [29]. Con tale neologismo, composto dalle parole green («ecologico») e whitewash («dare la calce», metaforicamente inteso come «insabbiare», «nascondere qualcosa»), ci si riferisce ad un’operazione di marketing e comunicazione realizzata mediante l’utilizzo di claims ambientali, volta ad indurre il consumatore a credere di trovarsi dinnanzi ad un’impresa che sia molto attenta al rispetto dell’ambiente quando, al contrario, la decantata immagine «verde» non trova effettivo riscontro nelle pratiche commerciali e nella reale attività imprenditoriale [30]. Si tratta di una strategia aziendale che si avvale della sostenibilità ambientale come strumento di marketing fuorviante [31], in quanto idonea ad ingenerare nel consumatore una falsa percezione delle politiche aziendali mediante un’appropriazione illegittima di pregi ambientali inesistenti o non attendibili, né verificabili, poiché non supportati da riscontri scientifici o da un’adeguata metodologia di verifica [32]. L’obiettivo è la valorizzazione della reputazione ambientale dell’impresa al fine di catturare l’attenzione dei consumatori sempre più attenti alla sostenibilità [33] e, di conseguenza, ottenere benefici in termini di fatturato mediante un aumento del bacino di clientela. Il rischio che si cela dietro tale fenomeno, caratterizzato dalla non esatta o chiara corrispondenza tra quanto pubblicizzato e la reale natura del prodotto, è che si generi sfiducia nei confronti di qualsiasi messaggio di sostenibilità, anche quando veritiero, con conseguente pregiudizio per lo sviluppo di un’economia sostenibile e per la credibilità del mercato nel suo complesso: la perdita di fiducia dei [continua ..]


3. Segue. L’enforcement delle regole a tutela del consumatore: le linee guida dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria

Fino al 2014 non esisteva nel nostro ordinamento giuridico alcun riferimento normativo specifico al greenwashing: è all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (di séguito I.A.P.) [37], che da oltre cinquanta anni persegue l’obiettivo di una comunicazione commerciale «onesta, veritiera e corretta» [38] a vantaggio tanto dei consumatori [39] quanto della leale concorrenza tra le imprese, che si deve l’introduzione di una disposizione ad hoc. Al fine di fronteggiare la rapida espansione del fenomeno e rispondere alla crescente esigenza di controllo dei green claims, con la pubblicazione della 58a edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale [40], lo I.A.P. ha introdotto l’art. 12 rubricato «Tutela dell’ambiente naturale» [41] – immodificato nelle successive versioni della codificazione –, che disciplina espressamente la fattispecie di abuso di dichiarazioni commerciali contenenti rivendicazioni ambientali [42]. La nuova norma, partendo dal presupposto che i pregi ambientali di un prodotto incidano in maniera decisiva sulle scelte di acquisto dei consumatori, impone standard precisi di correttezza al fine di evitare che gli slogan ecologici, sempre più diffusi nella pratica del mercato, divengano asserzioni di uso comune inidonee a contraddistinguere e diversificare i prodotti [43]. Si richiede, infatti, che i benefici di carattere ambientale pubblicizzati debbano «basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili» e che la comunicazione debba «consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono». La disposizione codifica le numerose indicazioni provenienti dalla giurisprudenza autodisciplinare in merito al come utilizzare i green claims senza rischiare di incorrere nel greenwashing. Dalle decisioni del Giurì e del Comitato di controllo [44], infatti, è possibile ricavare alcune interessanti linee guida di comportamento: se da un lato, non si esclude che la comunicazione pubblicitaria possa promuovere un’immagine green dell’azienda facendo riferimento, in maniera più o meno esplicita, alla relazione tra l’utilizzo del prodotto reclamizzato e la tutela dell’ambiente, dall’altro, è necessario che le asserzioni [continua ..]


4. Segue. Gli orientamenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato

In linea di continuità con gli orientamenti emersi nell’àmbito della giurisprudenza autodisciplinare, si pongono le pronunce dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di séguito A.G.C.M.), che consentono di inquadrare il fenomeno del greenwashing nel genus delle pratiche commerciali scorrette di cui agli artt. 20 ss. del codice del consumo [48], quale pratica ingannevole [49] soggetta appunto all’esercizio dei poteri investigativi, inibitori e sanzionatori dell’Antitrust [50]. Sebbene l’A.G.C.M. non abbia espressamente adoperato il neologismo greenwashing, ciò che viene censurato nei diversi provvedimenti è l’utilizzo mistificatorio di claims ambientali da parte di aziende che si autoproclamano «amiche dell’ambiente» e qualificano i propri prodotti come ecocompatibili attraverso l’utilizzo di informazioni enfatizzate, confusionarie e non veritiere idonee, in ragione della loro ambiguità, ad indurre il consumatore medio in errore [51], alterandone la capacità di scelta [52]. L’Antitrust, considerato che i green claims «descrivono o evocano una qualità che vale a distinguere il prodotto offerto sotto un profilo che viene valutato positivamente dai consumatori», rileva che sussista a carico delle imprese, che intendano avvalersi di tali vanti ambientali nelle proprie attività di marketing, un «onere informativo minimo imprescindibile (…) di presentarli in modo chiaro, veritiero, accurato, non ambiguo né ingannevole. Tale onere comporta (…) l’esigenza che il claim ambientale sia attendibile e verificabile, e non utilizzato in modo generico, privo cioè di precisi riscontri scientifici e documentali» [53]. In particolare, si ritiene indispensabile che all’utilizzo di asserzioni ambientali generiche – come «ecofriendly», «green», «aiuta a proteggere l’ambiente», etc. – si vengano ad affiancare claims di supporto che consentano di percepire con chiarezza quale sia l’effettivo impatto ambientale del prodotto pubblicizzato, al fine di evitare un effetto confusorio nel consumatore circa le sue caratteristiche essenziali e la sua portata ecologica [54]. Di conseguenza, l’uso di claims ambientali potrà ritenersi corretto soltanto qualora siano in [continua ..]


5. Considerazioni conclusive

Una indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Ue con il supporto delle Autorità nazionali di tutela dei consumatori [61] ha, tuttavia, confermato l’ampia diffusione delle pratiche sleali di greenwashing. Dallo screening «a tappeto» effettuato su diversi siti web di aziende operanti in vari settori economici (abbigliamento, cosmetici, elettrodomestici), che affermavano di commercializzare prodotti ecologici, nel complesso è emerso che nel 42% dei casi analizzati vi fosse fondato motivo di ritenere che le asserzioni utilizzate fossero esagerate, se non false o ingannevoli e, pertanto, idonee ad integrare una pratica commerciale sleale a norma della relativa direttiva comunitaria [62]. Nonostante tali dati siano poco rassicuranti, bisogna comunque rilevare che, a fronte di una rapida espansione del fenomeno patologico dell’abuso di asserzioni ambientali, l’enforcement delle regole avverso tali pratiche è crescente tanto in àmbito nazionale, quanto comunitario [63], a presidio di un principio generale di verità e trasparenza del messaggio rivolto al consumatore [64]. Tale considerazione trova conferma, da un lato, nel rigido e pervasivo controllo realizzato tanto dall’A.G.C.M. a tutela del diritto dei consumatori a compiere scelte d’acquisto che siano basate su dati trasparenti, chiari e scientificamente verificabili, quanto dall’I.A.P. in sede autodisciplinare quale prima forma di filtro; dall’altro, nelle molteplici iniziative comunitarie aventi l’obiettivo di dotare i consumatori di mezzi adeguati a compiere scelte sostenibili tra cui, in particolare, merita di essere menzionata la recente Proposta di direttiva per rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde [65] finalizzata a rafforzarne i diritti mediante l’introduzione di previsioni normative che garantiscano loro maggiori informazioni in merito alla durabilità ed alla riparabilità di determinati prodotti prima della conclusione del contratto per porli al riparo da pratiche sleali che impediscano acquisti sostenibili attraverso l’utilizzo di strumenti di informazione non trasparenti ed inattendibili ed arginando, conseguentemente, tanto il fenomeno del greenwashing quanto quello dell’obsolescenza programmata [66]. È innegabile che il terreno su cui si muovono gli operatori economici sia particolarmente insidioso: [continua ..]


NOTE